In Italia esiste una lunga tradizione di accordi collettivi (AEC) che regolano i rapporti tra agenti di commercio e imprese mandanti, in vari settori. A parte alcune esperienze precedenti, essi risalgono all’epoca fascista e, in linea con l’allora imperante corporativismo, erano accordi con validità erga omnes, vale a dire obbligatori in via generale.
Oggi gli AEC sono vincolanti solo per i soggetti che appartengono alle organizzazioni sindacali che li hanno sottoscritti. Riguardano, cioè. solo le parti contraenti, laddove le norme generali sull’agenzia sono previste dalla legge (direttiva 86/653/CEE e relativa attuazione – in Italia v. articoli 1742 e ss c.c.). Gli AEC hanno quindi perso centralità, pur restando di fatto applicabili in molti casi e continuando ad essere spesso persino presi come riferimento dai tribunali, nella misura in cui prevedono norme più favorevoli per gli agenti. E ciò anche in caso di contratti internazionali, dove, è ovviamente pressoché matematico che una delle parti non appartiene ad organizzazioni firmatarie di AEC.
Attualmente sono in vigore una quindicina di AEC negoziati da parti diverse e relativi a diversi settori. Due sono peraltro i più utilizzati: l’AEC Industria del 30 luglio 2014 e l’AEC Commercio del 16 febbraio 2009, (con gli aggiornamenti dell’accordo 16/02/2017).
Una delle peculiarità degli AEC è la distinzione tra agenti monomandatari e agenti plurimandatari. Questa distinzione non è presente né nella normativa comunitaria né in quella italiana.
L’agente monomandatario, cioè l’agente che si impegna a lavorare solo per il preponente e quindi a non svolgere altre attività (anche per i non concorrenti), riceve dagli AEC un trattamento più favorevole (periodi di preavviso più lunghi, indennità finale più alta, …).
Tradizionalmente ci si è chiesti se tale trattamento più favorevole possa essere esteso anche all’agente monomandatario solo di fatto, cioè all’agente che non si è formalmente impegnato a lavorare per un solo committente, ma di fatto lo fa. La soluzione affermativa risulta quella prevalente in giurisprudenza, nonostante alcune decisioni contrarie[1].
Da ultimo la Cassazione nel caso Carl Zeiss (2021)[2] che sottolineato come ciò che conta è “il reale atteggiarsi del rapporto tra le parti derivando il contenuto dell’obbligazione previdenziale dall’esecuzione in concreto del rapporto e non dall’assetto d’interessi nelle pattuizioni negoziali e dall’assunzione di uno specifico ed esclusivo obbligo in riferimento ad un solo preponente”. Nel caso specifico sono state valorizzati elementi fattuali che si sono tradotti in pratica in “maggiore solerzia e assiduità nelle visite ai clienti e, in definitiva, per la fidelizzazione e l’espansione della clientela, con corrispondenti vantaggi anche alla casa madre in forma di maggiori contratti conclusi e, soprattutto, non conclusi per altre aziende concorrenti”.
Va da sé – e lo ha recentemente ricordato il Tribunale di Napoli Nord (2023)[3] – che una clausola in contratto che impedisca all’agente di lavorare per concorrenti non vale di per sé a qualificare l’agente come monomandatario.
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[1] Cass. 18417/14, 13979/08, 17080/07, 4877/00 (contra Cass. 14444/00).
[2] Cass lav. ord. 32460 dell’08/11/2021, Carl Zeiss.
[3] Tribunale sez. II – Napoli Nord, 05/06/2023, sentenza n. 2296