Gli Emirati Arabi Uniti (UAE) son diventanti negli ultimi anni uno degli hubs preferiti per la commercializzazione di prodotti diversi (soprattutto macchinari e beni di consumo), in quello che viene tradizionalmente chiamato Medio Oriente[1].

Gli UAE sono uno Stato formalmente di assai recente costituzione (erano un informale protettorato inglese sino al 1971). Le popolazioni dell’area sono comunque sempre state attive nei traffici commerciali, grazie soprattutto ai porti costieri. Islamizzate nel VII secolo, divenute poi parte dal ‘500 dell’impero ottomano, hanno iniziato ad assumere una loro specificità ‘moderna’ nell’800, grazie ad una serie di accordi (truces) fra i vari sceicchi locali e la Gran Bretagna.

Oggi, gli UAE possono essere definiti come una monarchia elettiva e semi-costituzionale che federa i sette emirati tradizionalmente conosciuti appunto come Trucial States, gli Stati degli Accordi: Abu Dhabi, quello più esteso territorialmente e poi gli altri, fra i quali il più noto è Dubai.

Come noto, la scoperta del petrolio nel ‘900 è stata la leva per un deciso cambiamento dell’assetto economico, prima basato appunto sui commerci carovanieri e marittimi, oltre che su di una peculiare industria delle perle. Oggi gli UAE sono considerati la quarta economia regionale per importanza (dopo Turchia, Saudi Arabia e Israele) e l’export di petrolio e gas naturale, pur restando decisamente la più importante componente del PIL, concorre con altre attività: il commercio specialmente di prodotti high-tech e di lusso, la finanza, l’immobiliare, e pure il turismo.

Tornando alla produzione Made in Italy con destinazione UAE, è interessante notare come (dati 2023) la quota più rilevante (il 17,20%) sia costituita dall’export di macchinari cui va aggiunto un altro 7,32% di apparecchiature non meglio definite (elettriche e non).

Tra gli altri settori merceologici:

  • l’abbigliamento è pari al 6,23%,

  • l’arredamento (mobili) è il 3.56% ed

  • i prodotti alimentari e le bevande si collocano al 4,70% (3,57+1,13).

Veniamo alle questioni legali riguardanti, in particolare, i contratti di distribuzione. Questi come noto designano gli accordi destinati a regolare, in parole povere, i rapporti fra chi desidera distribuire certi prodotti o servizi in una certa area (principal, mandante, concedente…) e chi si occupa di farlo per suo conto (agente, distributore, importatore, intermediario, distributore, …). I termini usati sono i più vari ma, sostanzialmente, i contratti di distribuzione hanno un senso in tutti casi in cui un soggetto decide di operare in un mercato senza una propria struttura, ma comunque volendo esercitare un certo controllo sul marketing.

Per ragioni diverse (essenzialmente il desiderio o la necessità di evitare costi fissi), si opta così per avvalersi del lavoro di terzi che operino il loco ed a proprie spese. Tale strategia, nonostante ponga problemi di controllo sull’operato dei terzi (cui si può comunqne in qualche modo ovviare a livello contrattuale), risulta spesso ottimale, se non l’unica praticabile, soprattutto in mercati ‘lontani’, vuoi per distanza geografica che culturale.

Nelle economie avanzate, sono due i modelli di modelli di business che si sono affermati come dominanti:

  • (a) avvalersi di intermediari che procurano un affare e sono compensati in ragione del valore dello stesso (c.d. agenti) e

  • (b) avvalersi di rivenditori, che acquistano e rivendono, lucrando essenzialmente sul margine (chiamiamoli ‘distributori’). Il franchising fa un po’ caso a parte ma, di massima, può essere ricompreso in questo schema.

Il fatto di optare per l’uno oppure l’altro modello (si danno anche ipotesi ibride, comunque) dipende da vari fattori – fra questi, in particolare, la capacità finanziaria del soggetto che opera in loco. In tutte le economie avanzate, gli schemi contrattuali mandante/agente e concedente/distributore  sono ben conosciuti e ampiamente rodati. In molti casi, sono pure oggetto di normative specifiche che forniscono parametri aggiuntivi sui quali misurare la correttezza del comportamento di ciascuna parte nel dare esecuzione al contratto.

E negli UAE? Beh, come in molte economie di recente formazione, la tipizzazione sociale cui si è fatto riferimento poco non ha ancora avuto modo, per molti versi, di formarsi. Inoltre l’atteggiamento di base – nonostante un lento processo di liberalizzazione in atto da decenni – resta fortemente restrittivo e protezionistico. Questo carattere emerge nel tratto di fondo della legislazione adottata nel 1981 negli UAE in tema di commercial agency[2]:

  • una società straniera non può promuovere autonomamente i propri prodotti sul mercato UAE, salva espressa autorizzazione a farlo (che viene negata se detta società si è in precedenza avvalsa di agenti o rivenditori locali);

  • solamente cittadini o società UAE che siano iscritti ad apposito registro tenuto dal Ministero dell’Economia e del Commercio possono ufficialmente operare come referenti locali (per tutti gli UAE o singoli emirati) per conto di un soggetto straniero[3]. Poco importa si limitino ad intermediare un affare o gestiscano in proprio l’operazione, acquistando per rivendere.

  • I contratti conclusi con agenti/rivenditori/franchisees UAE abilitati debbono essere fatti per iscritto, avanti notaio, e raccolti in un Registro delle Agenzie Commerciali.

  • Il contratto è regolato dalla sola legge UAE. Non sono ammesse alternative.

  • Il contratto non può essere sciolto, se non (a) su accordo, (b) su iniziativa di una parte per una “valida ragione” ovvero (c) perché ne è decorsa la durata prefissata o una delle parti è validamente receduta rispettando il dovuto preavviso (che è di 1 anno o, se più breve, prima di metà della durata prefissata)[4].

  • Non è ammessa la registrazione di un contratto con un nuovo intermediario se quello precedente non risulta validamente cessato. Il vecchio intermediario può ottenere nel frattempo il blocco in dogana di merci destinate al nuovo[5].

  • Con la cessazione del rapporto spetta all’intermediario un’indennizzo rapportato al danno subito a causa della mancata prosecuzione. È previsto che tale danni possano essere contrattualmente esclusi per il caso di mancato rinnovo di un contratto chiuso scaduto.

  • Dopo la cessazione del rapporto l’intermediario ha diritto di rivendere al mandante (o al nuovo intermediario) lo stock ancora in suo possesso, ad un “giusto prezzo” (fissata dal giudice, se non concordato fra le parti).

  • In caso di controversie, le parti debbono innanzittuto rivolgersi ad uno speciale comitato (il Commercial Agencies Committee) per un parere che diviene vincolante se nessuna delle parti avvia una causa in tribunale (che necessariamente è UAE – non viene infatti accettata la giurisdizione di corti straniere). Dal 2022 è peraltro possibile optare, in alternativa, per un arbitrato da tenersi in UAE.

Nonostante alcune timide aperture, la normativa UAE in tema di intermediazione commerciale (che riguarda quindi, come detto, sia agenti che rivenditori) resta molto vincolante per le imprese straniere e assai protettiva per i soggetti locali.

Nella realtà, la non-registrazione dei contratti (unitamente ad un’adeguata strutturazione degli stessi – soprattuto in tema di clausole di legge applicabile e arbitrato) è una tattica largamente utilizzata (e pure riconosciuta spesso valida dagli stessi tribunali locali) per evitare le restrizioni sopra considerate.

 

 

 

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[1] I dati forniti dal nostro Ministero Affari Esteri riportano volumi 2023 e proiezioni sul 2024 di export dall’Italia (in crescita rispetto agli anni passati) intorno ai 6.6 miliardi di euro/anno (si consideri, a mo’ di paragone, che-

  • l’export italiano verso l’Arabia Saudita è di poco superiore ai 4 mld;
  • verso l’Egitto siamo sui 2 mld;
  • idem verso il Kuwait;
  • e verso Israele siamo sui 3.3 mld.

Certo non sono i 14 mld che finiscono in Turchia, ma questo è il paese con la maggiore economia dell’area e con rapporti privilegiati con la UE.

[2] Il principale atto riferimento è la legge federale n. 18 del 1981 conosciuta in inglese come (UAE) Commercial Agency Law. Questa legge ha subito varie modifiche negli anni (nel 1988, 2006, 2010, 2020 e da ultimo 2022 con legge n. 3 del 15/12/2022, entrata in vigore il 15/06/2023 (senza effetto retroattivo per 2 anni, esteso a 10 per i contratti nei quali l’intermediario ha investito più di 27m USD).

[3] Per le società, originalmente era previsto dovessero essere al 100% di soggetti UAE. Nel 2020 sono state ammesse anche le public companies con almeno il 51% del capitale in mano UAE.

[4] Tale ultimo motivo (scadenza della durata prefissata o su preavviso) è stato introdotto solo con la riforma del 2022.

[5] Con la riforma del 2022, pare esser diventato possibile evitare il blocco della merce, se vengono offerte adeguate garanzie al vecchio intermediario.

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Author: Carlo Mosca

A lawyer specializing in international commercial transactions. Lexmill's founding partner.

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