Il tribunale di Gorizia[1] si è recentemente pronunciato in tema di fuorviante indicazione di origine della merce immessa in commercio in Italia.

Il caso riguardava bricchette (blocchetti pressati di segatura o polvere di carbone, usati come combustibile per stufe o barbecue) di produzione bosniaca che nell’agosto del 2017 erano state presentate in dogana a Gorizia, come destinate ad un importatore italiano. La Guardia di Finanzia aveva rilevato come la merce fosse imballata in cartoni che portavano stampigliato la sola denominazione di una ditta italiana (non l’acquirente ma, curiosamente, una ditta terza) e le relative sedi. Secondo la Dogana ciò era suscettibile di indurre in inganno i consumatori quanto all’origine e la qualità del prodotto. L’uso della sola denominazione di una impresa italiana e le sue sedi poteva ingenerare infatti l’errata convinzione di aver a che fare con un prodotto “made in Italy”, cosa che invece non era. Per evitare ciò sarebbe stato necessario che venisse specificato dove effettivamente i prodotti erano stati realizzati[2].

Il tribunale di Gorizia ha ricordato che effettivamente vi è “fallace indicazione” laddove un marchio è utilizzato “con modalità tali da indurre il consumatore a ritenere che il prodotto o la merce sia di origine italiana ai sensi della normativa Europea sull’origine, senza che gli stessi siano accompagnati da indicazioni precise ed evidenti sull’origine o provenienza estera o comunque sufficienti ad evitare qualsiasi fraintendimento del consumatore sull’effettiva origine del prodotto, ovvero senza essere accompagnati da attestazione, resa da parte del titolare o del licenziatario del marchio, circa le informazioni che, a sua cura, verranno rese in fase di commercializzazione sulla effettiva origine estera del prodotto[3]. Oltre che esporre il responsabile ad una sanzione amministrativa (da 10.000 a 250.000 euro), ciò pure può configurare reato ai sensi dell’art. 517 c.p.[4] Peraltro, il tribunale ha assolto l’importatore per non aver connesso il fatto. È infatti emerso che l’importatore aveva ricevuto la merce per errore (il nome del destinatario stampigliato sui cartoni era infatti di una ditta terza con la quale l’interessato non aveva rapporti) e solitamente tutte le precedenti importazioni presso quel fornitore fatte recavano la dicitura “materiale di provenienza extra UE”.

In questo caso, all’importatore è andata bene, ma occorre considerare che la fattispecie era particolare[5].

In generale, invece, occorre tener presente che indicare solamente il nome del destinatario italiano, può senz’altro configurare “fallace indicazione di origine”.

In una decisione del 2019, la Cassazione ha così ritenuto, in relazione a mobilio di origine cinese marchiato “Belair” e “Zown”. Il primo era un marchio di titolarità della Belladonna s.r.l. di Salerno, il cui indirizzo pure era stampigliato sugli imballi. In questo caso, è stato ritenuto che le riportate indicazioni non consentivano – indiscutibilmente – di comprendere che i prodotti industriali erano stati importati dalla Cina (non contenendo nemmeno un dato sicuramente interpretabile in tale direzione, come il disegno dei colori della bandiera dello Stato di provenienza o una sigla riconducibile sul mercato a tale Stato, del tipo “made in PRC”), così essendo – senza alcun dubbio – in grado di indurre in errore la platea dei consumatori sulla effettiva origine dei prodotti.[6].

Ma andiamo con ordine:

  • In Italia, come d’altronde nell’intera area EU, non è richiesta, salvo casi eccezionali (es. alimentare) l’indicazione di origine dei prodotti immessi in circolazione. A livello comunitario si è infatti sempre ritenuto che prevedere diversamente avrebbe favorito una ripartizione dei mercati e limitato il principio di libera circolazione delle merci. Ciò riguarda anche merci di origine extra UE e sotto tale profilo la disciplina UE si distingue da quella di paesi come gli USA che invece esigono che i prodotti importati rechino l’indicazione di dove originino. Va da sé, comunque, che – se apposta – un’indicazione di origine dev’esser veritiera[7].

  • Il termine “origine” si presta ad interpretazioni diverse, soprattutto se riferito a prodotti composti o che hanno subito più processi di lavorazione (se infatti è agevole sostenere che una patata coltivata in Ukraina è di origine ukraina, è legittimo chiedersi se l’origine dei chips congelati ricavati dalla stessa resta la stessa o diventa polacca laddove quella patata è stata affettata, fritta e congelata in Polonia). In Italia e nella UE, il criterio applicabile, in assenza di diversa previsione, è quello dell’ultima trasformazione rilevante, vale a dire che l’origine è quella del paese in cui il prodotto commercializzato è stato sostanzialmente realizzato (nel nostro caso sarebbe Polonia, anche se per avventura l’insaccamento dei chips fosse avvenuto in Ungheria). A livello internazionale, un’azione di unificazione dei criteri attributivi l’origine è stata affidata alla WTO. In tale sede è stato concluso nel 1995 un Accordo sulle Regole d’Origine ma il lavoro di armonizzazione sulle regole non-preferenziali (cioè fuori da accordi specifici) è – ahinoi – ancora in corso[8].

  • Il fatto che un prodotto sia marchiato in un certo modo non comporta necessariamente l’attribuzione di una certa sua origine, nel senso sopra indicato. Il marchio infatti designa essenzialmente CHI ha prodotto o messo in circolazione un certo prodotto, non DOVE questo è stato fatto (un computer marchiato “Apple”, se chiaramente è riconducibile come design e progettazione alla nota industria di Cupertino, California – può ben essere sostanzialmente realizzato, come tutti sanno in altri paesi, Taiwan – o China Taipei, se preferite – in primis).

  • In Italia, come sopra detto, il sistema sanziona sia la falsa che la fuorviante (“fallace”) indicazione di origine, sia sul piano amministrativo (commi 49 e 49-bis dell’art. 4 legge 350/03) che quello penale (art. 517 c.p.).

    1. L’ipotesi di falsa indicazione è chiara: ad es. un prodotto viene etichettato come “Made in … [un dato paese]” laddove è fatto (nel senso che ha subìto l’ultima trasformazione sostanziale) altrove[9].

    2. L’ipotesi di “fallace” indicazione è invece più articolata, in quanto consiste nell’uso (non di un’espressa indicazione di origine, ma) di altri segni, figure che possano indurre il consumatore in errore quando alla reale origine. Un’ipotesi particolarmente problematica è costituita dalla semplice apposizione, su prodotto di origine in nello stato A del marchio o della denominazione di un’impresa con sede nello stato B. Qui mancano evidentemente indicazioni false, ma è o no fuorviante e quindi fallace, come indicazione? È il caso delle bricchette bosniache ed anche quello Belair, sopra considerati. Per la Cassazione si tratta di un’ipotesi ‘speciale’ di fallace indicazione

  1. Sia il comma 49 che l’art. 517 c.p. coprono entrambe le ipotesi, con portata generale (indipendentemente cioè dallo stato di origine apparente o effettivo), sul presupposto che comunque le indicazioni fornite siano ingannevoli;

  2. Il comma 49-bis invece, attiene invece alla sola difesa del “made in Italy”[10] ed opera al solo livello amministrativo, sanzionando indicazioni non tanto ingannevoli quanto imprecise o incomplete.

Francamente, il coordinamento fra le previsioni citate non nei fatti è semplice anche se il principio appare abbastanza chiaro:

  1. Se le indicazioni sono fallaci a causa della loro imprecisione o insufficienza, si versa nella sola ipotesi di illecito amministrativo (depenalizzato) (comma 49-bis);

  2. Se le indicazioni sono fallaci in senso decettivo, si è in terreno penale.

Nel caso Wine Kit deciso nel 2020, la Cassazione ha ritenuto applicabile la norma penale alla messa in circolazione di mosto originario da vitigni non italiani, da utilizzarsi dal cliente per produrre vino in casa. Il fatto che la confezione del mosto indicasse nomi di vini italiani (Amarone, Barbera, …), oltre alla bandiera italiana ed una riproduzione del Colosseo, è stato decisivo per sostenere che il consumatore ben poteva considerarsi ingannato quanto alla reale origine del mosto[11].

Anche nel caso Intertraco, è stato applica la sanzione panale. Si trattava di import di tubi di gomma di fabbricazione turca marchiati semplicemente “Italy”[12]. Idem nel caso Eko Italia, relativo ad import di strumenti musicali dalla Cina, marchiati Eko con aggiunta della bandierina tricolore, fattore questo decisivo per affermare la decettività delle indicazioni[13].

Diverse le conclusioni invece nel caso “La Gamma Italy” del 2007: si trattava di prodotti di pelletteria di origine cinese, marchiati appunto con la (sola) detta scritta. L’importatrice era tale ALMA 80 s.r.l. Il tribunale di Milano nel 2009 riteneva applicabile l’art. 517 c.p. e condannava il titolare a 3.000 di multa. Decisione confermata poi in corte d’Appello nel 2013. Secondo la Cassazione, invece, si versava in un caso di mero illecito amministrativo (comma 49-bis): “l’importatore non aveva apposto alcuna etichetta di provenienza fallace, ossia indicante falsamente un luogo di produzione, ma solo un’etichetta raffigurante il proprio marchio, idoneo tuttavia ad indurre in errore il consumatore sulla effettiva origine dei prodotti”.[14]

 

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______________

[1] Sentenza n. 142 del 17/06/2021.

[2] All’epoca dell’introduzione della norma, il Ministero dello sviluppo economico ha identificato (circ. n. 124898 del 09/11/2009) sostanzialmente due modalità: indicare la corretta origine su un’etichetta applicata al prodotto o apposta sull’imballo; ovvero dichiarare l’origine in dogana, all’atto dell’importazione.

[3] Art. 4.49-bis della c.d. “Finanziaria 2004” (legge n. 350/2003), come novellato nel 2009 dall’art. 16.6 del d.l. 135/2009.

[4] Chiunque pone in vendita o mette altrimenti in circolazione opere dell’ingegno o prodotti industriali, con nomi, marchi o segni distintivi nazionali o esteri, atti a indurre in inganno il compratore sull’origine, provenienza o qualità dell’opera o del prodotto, è punito, se il fatto non è preveduto come reato da altra disposizione di legge, con la reclusione fino a due anni e con la multa fino a euro 20.000.

[5] Altro curioso caso di assoluzione per assenza di dolo è quello affrontato dal Tr. di Bari nella sentenza 153 del 19/01/2022. Qui si trattava di scarpe cinesi alla cui suola era stata apposta l’etichetta Made in Italy su errata indicazione del destinatario finale USA.

[6] Cass. civ. VI, ord. 20952 del 06/08/2019, Belladonna.

[7] Già a fine secolo scorso, peraltro, la tutela contro le false indicazioni di provenienza era stata trasfusa in accordi internazionali. Va ricordato in primo luogo l’art. 10 della Convenzione di Unione di Parigi (CUP) del 1883 che prevede il sequestro all’importazione. Specifico poi sul punto, l’Accordo di Madrid 14/04/1891 sulla “Repressione delle false o fallaci indicazioni di provenienza delle merci di cui l’Italia fa parte con altri 30 Paesi (L’Accordo di Madrid è stato ratificato dall’Italia nel 1967 con norme d’attuazione contenute nel d.p.r. 26/02/1968, n. 256).

[8] Accordo sulle Regole d’Origine (Agreement on Rules of Origin), allegato al Trattato WTO approvato a Marrakech il 15 aprile 1995. Il programma per l’armonizzazione di tali regole, che originalmente doveva concludersi entro tre anni.

[9] Caso esemplare è quello di semilavorati prodotti in Romania da un’impresa italiana che aveva lì delocalizzato la produzione. Oltre che esser marchiati con il nome dell’azienda (cosa legittima), i prodotti infatti erano anche contrassegnati come “made in Italy” il che era all’evidenza falso ed ha condotto alla condanna penale ex art. 517 c.p. del titolare (Cass. pen. III 19650 del 27/01/2012, Samoa).

Analoga ipotesi si ha quando un prodotto rivendica di essere al 100% italiano, laddove invece anche parzialmente di origine estera.

[10] La norma “si inquadra dunque nell’ambito della tutela del Made in Italy, al fine osteggiare le attuali tendenze di delocalizzazione di marchi nazionali di lunga tradizione imprenditoriale” (Cass. civ. I, ord. 20226 del 23/06/2022, Domolux in un caso riguardante calzature di fabbricazione cinese marchiate “Luca Stefani”, senz’altra indicazione.

[11] Cass. pen. III, 9357 del 09/03/2020, Packlab Product Inc.

[12] Cass. pen. III, 23850 del 03/05/2022 Intertraco.

[13] Cass. pen. III, 54521 del 14/06/2016 Eko Music Group.

[14] Cass. pen. III, 52029 del 15/12/2014, Alma 80.

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Author: Carlo Mosca

A lawyer specializing in international commercial transactions. Lexmill's founding partner.

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