Alla fine, Brexit fu, come noto.
E tutti si affannano a ipotizzare che piega prenderà ora la storia delle relazioni EU/UK e, in piccolo, che conseguenze ci saranno per gli operatori che fanno affari con il Regno Unito. L’unica cosa certa è la grande incertezza che regna al riguardo. Troppe le variabili e troppo, magari, è ancora il peso che nelle valutazioni individuali hanno i fattori emotivi.
Proviamo a mettere in riga qualche idea ed avventurarci in qualche ipotesi, pur consapevoli che inevitabilmente tale esercizio rischia di esser ridicolizzato dai futuri sviluppi.
Il lettore ci permetta uno sfizio preliminare: perché mai è successo?
Le ragioni sono tante, ma banalmente sospettiamo che largo ruolo abbia avuto il fattore ‘nostalgia dell’impero’. Del Regno Unito, insomma ante II guerra mondiale. Chi oggi ha 60/70 anni (ed ha votato in maggioranza per uscire dalla UE) ha fatto in tempo a respirare in famiglia questa atmosfera. La perdita dell’India e la decolonizzazione in Africa erano cose troppo recenti per intaccare l’idea di un dominio globale; lo smacco di Suez, era stato un incidente di percorso; la nascente CEE una cosa troppo nuova e tutto sommato un affare di altri. Certo, la swinging London degli anni ’60 era tutt’altra cosa, ma in fondo contribuiva a mantenere viva l’idea di esser comunque sempre al centro del mondo. Ci sono alcune vicende sintomatiche di tale sentimento di nostalgia: in particolare la vicenda delle Falklands/Malvinas. Quel che vogliamo dire è che tale nostalgia imperiale (nostalgia perché ovviamente l’impero non c’era più ed occorreva farsene una ragione) è stata una costante sempre presente, dal dopoguerra ad oggi e ha alimentato sentimenti e reazioni per noi difficilmente comprensibili (si pensi alla diffidenza verso la Corte di Giustizia Europea, benedetta istituzione ai nostri occhi, intollerabile ingerenza straniera agli occhi di molti inglesi).
Al di là dei fattori emotivi, la base razionale è stata poi la scontata visione di un EU come mercato unico, mai come unione politica. Tra insofferenze costantemente emergenti e riserve mentali, la verità è che i cuori inglesi non hanno realmente mai vibrato (in maggioranza, ovviamente, perché a livello individuale abbiamo conosciuto molti ferventi filoeuropei) all’idea degli Stati Uniti d’Europa. Naturale quindi divincolarsi da quel che ai più pareva una scomoda situazione di compromesso.
Comunque sia, così è andata.
Ed ora che succede?
Aspettando che il Regno Unito si rimetta in fila e ripresenti la sua domanda di adesione alla UE, oggi abbiamo innanzittutto a che fare con un Paese terzo rispetto all’Unione. Il che ha ripercussioni notevoli in quanto cade il principio di mutua libera circolazione di persone, merci e capitali. I rapporti sono oggi regolati da un accordo speciale di collaborazione, lo EU-UK Trade and Cooperation Agreement, chiuso in zona cesarini poco meno di un anno fa, a Natale del 2020.
Limitandoci all’essenziale:
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la prima implicazione per le imprese italiane è ovviamente quella doganale. Il Regno Unito è fuori dallo spazio doganale UE (anzi da quello EEA, cioé la UE più Islanda, Liechtenstein e Norvegia, più la Svizzera – che non è Stato né EU né EEA, ma partecipa al mercato unico) e vendere a clienti inglesi, scozzesi, gallesi (quelli del NI fanno caso a parte), significa oggi esportare. E, di converso, importare. Per carità, non è un dramma. Succede con una moltitudine di altri Paesi, e basterà adattare le procedure sinora seguite. Per fortuna poi lo scambio di merci (ma solo quelle originarie) sarà a dazio zero.
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Seconda implicazione terra terra è che il Regno Unito non è più tenuto a conformarsi alle direttive UE né, tantomeno, a rispettare e far rispettare i regolamenti UE o attenersi alle decisioni della Commissione o a quelle della Corte di Giustizia interpretative dei trattati). Qui, gli effetti li vedremo fra anni perché per ora tutto il diritto UE è stato di peso cristallizzato e reso parte della legge interna grazie al EU (Withdrawal) Act 2018. Dal 1° gennaio 2021 però inevitabilmente le traiettorie hanno iniziato a divergere perché non c’è più alcun meccanismo che le tenga parallele. Quanto sarà il grado e la velocità di divergenza è difficile dirlo, perché questione inevitabilmente politica, ma sarà nella natura delle cose che ciò avvenga.
Più che speculazioni generali, ci piace però vedere che succederà nei settori che più interessano la nostrana esportazione. Ecco una breve e sintetica rassegna.
Contratti di vendita
Non cambia (e non cambierà) nulla. Già gli inglesi erano in splendido isolamento rispetto alla convenzione di Vienna 1980, la legge uniforme sulle vendite internazionali di merci condivisa da buona parte del mondo (94 paesi, inclusi tutti UE ad eccezione di Irlanda e Malta, guarda in po’…). Anche qui, si sa che pesa (ha sempre pesato) il ricordo dei clippers che arrivano dalle Indie occidentali carichi di tea e spezie. Non che lo Sale of Goods Act, ed in genere la legge inglese non abbiano tratti apprezzabili, anzi… ma la convenzione di Vienna andava ratificata e basta al di là delle ritrosie pur legittime sugli scostamenti rispetto alla common law (basti l’esempio dato di altri grandi paesi di common law, come gli Stati Uniti, fra i primi dieci a farlo, l’Australia poco dopo, il Canada…). Gli inglesi non l’hanno mai fatto e è da ritenere non lo faranno in futuro. Attenzione quindi se si compra o vende sub legge inglese: le regole possono divergere notevolmente da quelle cui ci si è oramai abituati facendo affari con buona parte del resto del mondo.
Contratti con concessionari di vendita, importatori esclusivisti, e simili.
Pure qui, per quanto attiene i rapporti contrattuali, non cambia nulla. Manca infatti un modello legale ‘europeo’ da cui divergere. Le cose stanno invece diversamente per quanto attiene la normativa sulla concorrenza, che in contratti del genere entra in gioco data la frequenza di clausole che restringono il territorio, assicurano esclusive, ecc. Nella UE il riferimento è alle regole sui c.d. accordi verticali (reg. 330/2010, detto VABER Vertical Agreement Block Exemption Regulation, oggi in fase di revisione). In UK si parla di un VABEO (Vertical Agreements Block Exemption Order) di prossima adozione che tendenzialmente e concettualmente si rifarebbe al VABER, ma presenterebbe alcune peculiarità nel senso di dare maggior controllo al concedente. Vedremo…
Contratti con agenti
Qui le cose cambieranno, probabilmente, anche se probabilmente solo nel lungo periodo. Non pare infatti per nulla urgente modificare l’assetto attuale, che è basato sulle Commercial Agents Regulations 1993 (adottate a seguito della direttiva comunitaria del 1986).
Società
Cadono ovviamente i vincoli di conformarsi alle direttive UE e vengono meno tutte le facilitazioni previste per società appartenenti all’area EEA (in primis in tema di libero stabilimento, nomina e libera circolazione degli amministratori, ma anche in tema di fusioni e insolvenza). Per quanto riguarda l’architettura societaria, l’impatto Brexit rischia comunque di esser essere notato solo nel lungo termine. Già sotto il regime UE, le società UK avevano mantenuto molte delle loro tradizionali specificità.
Proprietà intellettuale, marchi, brevetti, design, …
Il Regno Unito esce dal circuito che governa il marchio comunitario ed il design (brevettato o meno). Per assicurare continuità, il Withdrawal Agreement ha previsto che dal 1° gennaio 2021 l’ufficio inglese per i brevetti (UKIPO) crei un marchio interno, corrispondente e speculare ad ogni esistente marchio EU (o internazionale esteso alla EU). Lo stesso vale per i disegni.
Per quanto riguarda i brevetti per invenzione non cambia nulla. Il brevetto EU è ancora allo stato di progetto. Per proteggere le proprie invenzioni resta quindi il tradizionale ricorso a brevetti nazionali, eventualmente da estendersi in base alle convenzioni o il fascio della trentina di brevetti nazionali ottenibile con il deposito all’EPO – Ufficio Brevetti Europeo di Monaco di Baviera (che non è istituto EU, ma è bensì basato su una convenzione conclusa nel 1973).
Da considerare il fatto che la legittima immissione in commercio in UK di prodotti caratterizzati da diritti di proprietà intellettuale non determina più ‘esaurimento’ in ambito EEA di tali diritti. Ciò comporta che la successiva reimportazione in area EEA deve avvenire con il consenso del titolare (cioè non si applica l’attuale normativa sulle vendite c.d. parallele’). Il contrario però non vale: il principio di esaurimento varrà nel Regno Unito in relazione ai prodotti esportati nella EEA. Un esportatore italiano potrà così porre in essere vendite per canali paralleli in UK, anche se resta libertà del Regno Unito introdurre un domani eventuali restrizioni.
Quanto al diritto d’autore (copyright) non cambia sostanzialmente nulla in quanto la materia è regolata da convenzioni internazionali di cui sia EU che UK restano parte. Vi sono peraltro delle specificità EU (es. protezione sui databases o sui servizi relativi a contenuti online) che possono trovare delle limitazioni nella loro estendibilità al Regno Unito.
Determinazione della legge applicabile.
rima della Brexit, i giudici del Regno Unito erano tenuti – alla stregua di tutti gli altri giudici nei Paesi dell’Unione, a seguire identici canoni per l’identificazione di quale è la legge applicabile ad un certo rapporto (contrattuale o meno) oggetto di un contenzioso da essi gestito: Regolamenti Roma I (593/2008) in tema di obbligazioni contrattuali ed Roma II (864/2007) in tema di obbligazioni non contrattuali. La situazione per ora resta la stessa, dato che il Regno Unito ha adottato nel febbraio 2019 le Law Applicable to Contractual Obligations and Non-Contractual Obligations (Amendment etc.) (EU Exit) Regulations 2019 che hanno trasfuso nella legge interna, salvo dettagli, i due regolamenti citati. Modifiche future paiono poco probabili, visto che l’assetto UE già non si distanziava dalla tradizione inglese.
Questioni di giurisdizione: cioè chi è il giudice competente a decidere una determinata questione cross-border.
Qui le cose cambiano, invece, ad anche drasticamente. Prima della Brexit, il Regno Unito era tenuto a seguire comuni criteri per l’identificazione del giudice competente e soprattutto a riconoscere e dar esecuzione alle decisioni emanate da giudici degli altri Paesi UE: reg. Bruxelles I (1215/2012). Oggi, invece-
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per quanto riguarda la determinazione del giudice, uno strumento parzialmente utile (perché non copre l’ipotesi frequente di mancanza di indicazione del foro, come pure l’indicazione di fori non esclusivi) è costituito dalla Convenzione de L’Aja 30/06/2005 recentemente entrata in vigore sia in UK che nella UE, che vi ha aderito per conto di tutti i paesi membri;
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per quanto riguarda invece il riconoscimento e l’esecuzione delle sentenze, si è (e presumibilmente si resterà a lungo) in alto mare. Si discute se il vecchio trattato di Roma 07/02/1964 ed il relativo protocollo 14/07/1970 possano o no dirsi resuscitati. Si tratta comunque di testi datati e dal campo d’applicazione decisamente più ridotto di quello Bruxelles. Per il futuro la situazione potrebbe tornare a quella tutto sommato pre-Brexit, se il Regno Unito diventasse parte della convenzione di Lugano 2007, erede di quella del 1988 (uno strumento parallelo al sistema Bruxelles creato per gli allora paesi EFTA). ll Regno Unito ha presentato domanda di adesione in aprile 2020, ma la procedura richiede l’assenso di tutti gli attuali paesi contraenti. Ancor più in là nel tempo pare l’utilizzo della recente Convenzione de L’Aja 02/09/2019 in tema di riconoscimento delle decisioni (oggi firmata da soli tre paesi).