La vicenda dell’inquinamento di falde acquifere in una trentina di comuni di Vicentino, Veronese e Padovano ha portato alla notorietà dei più la sigla PFAS. La sigla sta per “perfluorinated alkylated substances” e denota un grande numero di sostanze perfluoroalchiliche (dai 5.000 ai 10.000 tipi, secondo le varie fonti). Queste sono un prodotto di sintesi utilizzato nell’industria partire dagli anni ’40. Sono sostanza particolarmente apprezzate per la loro capacità di essere idro- ed oleorepellenti, oltre ad una bassa infiammabilità. Avete presente il teflon delle padelle, i rivestimenti in tessuto dei sedili delle auto, i rivestimenti dei fili elettrici, le giacche in Goretex? Tutti contenenti notevoli dosi di PFAS, che, ignari noi, sono un po’ dappertutto: imballaggi di carta per generi alimentari, creme e cosmetici, pesticidi, …

Il lato oscuro di tali sostanze è che possono facilmente disperdersi nell’ambiente in modo persistente, contaminando soprattutto le acque e immettendosi quindi nella catena alimentare. La ricerca sulla pericolosità di queste sostanze non è molto approfondita, ma vi è più di un’evidenza non facciano troppo bene alla salute degli animali, Sapiens inclusi (danneggiando, in particolare, lo sviluppo di bambini e anziani). Per di più, le molecole che li compongono sono volativi e al pari dello spray possono raggiungere l’alta atmosfera e impattare sul livello di ozono.

Tale pericolo può essere prevenuto con accurate tecniche di manipolazione e stoccaggio (cose in cui evidentemente la MITENI, responsabile dell’inquinamento nel Vicentino pare da fine anni ‘70, non eccelleva) ma è diffusa la sensazione che, alto che sia il livello di controllo, si abbia a che fare con sostanze mortifere che è meglio abbandonare del tutto. Di qui l’esigenza di una riconversione industriale che punti su sostanze magari mano performanti ma con un ben più accettabile impatto sull’ambiente e sulla salute dei singoli.

A livello UE, PFOS (gli acidi perfluorosulfonici) e PFOA (gli acidi perfluorooctanoidi), le due maggiori categorie di PFAS, sono già oggetto di controllo e restrizioni all’uso[1], ma anche a livello statale sono state adottate misure di contenimento volte soprattutto ad abbassare progressivamente i livelli accettabili soprattutto in terra, acqua, vestiario, prodotti a contato con alimenti. In sostanza, siamo oggi in una situazione di allarme, nella quale molti PFAS continuano ancora ad esser prodotti, ma bandi o restrizioni all’impiego di PFAS si allargano nei vari settori, fosse solo per un saggio principio di precauzione. A febbraio dello scorso anno, l’Agenzia Europa per i prodotti chimici (ECHA) ha pubblicato un dossier in materia, contente la proposta di un bando totale dei PFAS in tutto il territorio dell’Unione. Questo dovrebbe avvenire nel giro di 18 mesi.

Nel 2020 la Commissione aveva reso noto l’intenzione di “bandire tutte le sostanza chimiche più dannose per i consumatori, facendo salvo l’uso solo di quelle essenziali”[2], ma preoccupantemente di ciò non vi era traccia nel programma di lavoro 2024 probabilmente a causa delle resistenze dell’industria che più impiega i PFAS[3]. Solo una volta che sarà instaurata la nuova Commissione, sarà possibile capire che politica verrà adottata nei prossimi anni.

Negli Stati Uniti, l’allarme è più sentito.

Il Maine ha adottato un atteggiamento draconiano, programmando di essere PFAS-free entro il 2030, con la sola eccezione di quelle per “usi inevitabili” (da identificarsi a cura del legislatore).

Altri Stati hanno invece optato, o stanno per farlo, per un atteggiamento più aperto, considerato anche che la grande varietà di PFAS e loro uso merceologico pare sconsigliare una soluzione uguale per tutti. La California, ad esempio, uno degli Stati più importanti ha diversificato nel settembre 2022 le misure, bandendo i PFAS (“intenzionalmente impiegati”) da abiti tessuti e cosmetici con effetto dal gennaio 2025, ma solo dal 2028 per gli indumenti atti a “condizioni ambientali severe” (es. attrezzatura da montagna). Alcune categorie di vestiario sono poi del tutto esenti dal bando (quelli per protezione individuale e quelli ad uso militare). Nel settore cosmetico, poi, sono un numero limitato di PFAS è stato vietato.

Altri Stati hanno adottato politiche ancora più ‘morbide’, considerando evidentemente la difficoltà dell’industria di modificare una parte consistente della loro catena di approvvigionamenti.

Non vi è dubbio, comunque, che il trend – almeno nelle economie avanzate – sia quello. Il problema è il resto del mondo, che bellamente inquina, e continuerà presumibilmente ad impiegare PFAS per gli anni a venire.

Oltre ai problemi di inquinamento (che ovviamente non conosce confini), vi è anche quello di una concorrenza sleale che fra imprese operanti in Stati che adottano un diverso regime e commercializzano in aree commercialmente permeabili.

Operativamente, comunque, ogni azienda dovrebbe verificare la presenza di PFAS nei suoi prodotti e come poter eliminarli in tempi relativamente veloci.

L’esigenza ha anche aspetti prettamente commerciali, considerato che il mercato sta assumendo consapevolezza del problema e richiederà progressivamente prodotti PFAS-free, lo imponga la legge o meno.

 

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[1] Dei primi (PFOS) ne è vietata la fabbricazione, commercializzazione ed uso nel Reg. 1021 del 2019 sugli inquinanti organici persistenti (POPs). I secondi (PFOA) come altri PFAS sono ‘sorvegliati speciali’ secondo il Reg. 1907 del 2006 c.d. REACH.

[2] EU COMM, Chemical Strategy for sustainability (14/10/2022).

[3] EU COMM, Commission Work Programme 2024 (17/10/2023).

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Author: Carlo Mosca

A lawyer specializing in international commercial transactions. Lexmill's founding partner.

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