La Corte d’appello di Milano nel marzo 2021 ha affrontato – con riferimento ad una fornitura transfrontaliera di merce – il tema di quando un contratto può dirsi ‘fatto’ ed a che termini. In parole povere, quand’è che finisce la fase negoziale e prende corpo un accordo (che ovviamente impegna con tutte le conseguenze del caso)? La regola base è che ciò si verifica quando le posizioni manifestate dalle parti coincidono. Si parla infatti di mirror rule (la regola dello specchio) come criterio di verifica. Sino a che non c’è perfetta coincidenza, restiamo in territorio di trattative. Appena coincidenza si verifica, il contratto è fatto (“concluso”).

Tale approccio vale. di principio, anche nelle compravendite internazionali di merci. La normativa uniforme di cui alla Conv. di Vienna 1980 (CISG) – che ne fissa le regole di base in Italia come in molti altri paesi –  prevede infatti che

La risposta ad una proposta, che intenda essere una accettazione della stessa ma contenga aggiunte, limitazioni o altre modifiche, costituisce un rifiuto della proposta e vale come controproposta” (CISG art. 19.1)

Vi sono però dei margini di tolleranza, perché lo stesso articolo così procede:

Tuttavia, la risposta ad una proposta, che intenda essere una accettazione della stessa, ma contenga aggiunte o modifiche tali da non alterare sostanzialmente i termini della proposta, costituisce accettazione, a meno che il proponente, senza ritardo ingiustificato, non si opponga verbalmente a tali divergenze o invii una comunicazione a tale scopo. Nel caso in cui egli non si opponga nei modi sopraindicati, i termini del contratto sono quelli della proposta con le modifiche contenute nell’accettazione” (CISG art. 19.2).

Apertura intelligente, ma tutto sommato assai timida se si considera il terzo ed ultimo capoverso:

Si considerano tali da alterare in modo sostanziale la proposta aggiunte o modifiche che riguardino, in particolare, il prezzo, il pagamento, la qualità e la quantità della merce, il luogo e il momento della consegna, l’ambito delle responsabilità di una parte nei confronti dell’altra o la composizione delle controversie” (CISG art. 19.3).

In conclusione, divergenze non sostanziali (alla luce di quelle elencate) permettono quindi di infrangere la regola dello specchio. Il che non può dirsi, almeno sulla carta in relazione alle norme sulle vendite interne (l’art. 1326 del codice civile contempla solo un precetto analogo a quello espresso nel 19.1 CISG e, quindi, aderisce senza sbavature alla mirror rule). In effetti, la flessibilità introdotta dalla CISG è stata all’epoca oggetto di acceso dibattito fra ‘innovatori’ (che la volevano) e ‘tradizionalisti’ (che preferivano la vecchia cara regola dello specchio). Quella che ne è uscita è evidentemente una soluzione di compromesso, una flessibilità sì (19.2), ma grandemente depotenziata (19.3).

 

Nella decisione commentata, la Corte ha confermato un’ordinanza emessa dal Tribunale di Milano in un caso in cui un cliente, dopo aver ricevuto un’offerta per la fornitura di determinati beni, li aveva ordinato specificando però che dovevano essere di una determinata marca. Il venditore non aveva tenuto conto di quest’ultima richiesta. Quando la merce è arriva (già pagata) il compratore ha rifiutato di prenderla in consegna ed è stato poi costretto ad agire in tribunale contro il venditore che non intendeva rimborsargli l’acquisto (evidentemente pensando di aver consegnato secondo accordi).

Il tribunale (e anche la corte d’appello) han dato ragione al compratore. Nessun contratto si era debitamente perfezionato, dato che la richiesta di ricevere merce di una determinata marca doveva considerarsi modificazione sostanziale dell’offerta originaria fatta dal venditore – una ‘controproposta’ quindi, che impediva la chiusura del cerchio in assenza di una conferma (anche di fatto) da parte del venditore dei nuovi termini. Cosa, appunto, non avvenuta.

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Author: Carlo Mosca

A lawyer specializing in international commercial transactions. Lexmill's founding partner.

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